mercoledì 29 dicembre 2010

NATALE IN SUDAFRICA ovvero Come fare soldi sulla demenza degli italiani



L’idiozia non conosce crisi. Con 6 milioni di euro anche quest’anno sbanca i botteghini la terna De Sica-Neri Parenti-De Laurentiis. Una commedia senza una battuta che faccia abbozzare un sorriso che razza di commedia è? Quello del cine-panettone è un mistero italiano degno di Lucarelli. Lo strombazzamento mediatico continua a far incassare questi film che fanno uscire dalla sala con la nausea. A fregare gli italiani è l’abitudine. Dopo cappelletti e panettone non si riesce a fare a meno di andare al cinema a farsi bloccare la digestione dalle battute penose di De Sica e della sua combriccola di cialtroni? Quest’anno a prestare le cosce e il davanzale al botteghino è la soubrette Belèn che si mostra come “preda” di due cacciatori (Ghini e Panariello).
Per paura di incassare poco i debosciati hanno pure infarcito il film di spot come un tacchino ripieno. Ad ogni inquadratura la macchina da presa indugia su marchi di telefonini, vestiti e automobili senza pudore. Per non farsi mancare niente il tutto è arricchito da un po’ doppi sensi misogini, battute razziste e volgarità un tanto al chilo. La trama è riassunta magistralmente dallo stesso De Sica: “Se dovessi raccontare drammaturgicamente la storia non saprei cosa dirti perché è sempre la stessa da ventisette anni”. Chiarissimo. “Sono uno stacanovista della cazzata” ha affermato con autentica sincerità Neri Parenti che ogni inverno sforna questa accozzaglia di natale che può vantare il triste primato di essere divenuta icona culturale dell’epoca berlusconica. Il nulla ripieno di niente stuzzica il palato di molti sciagurati che riempiono le sale cinematografiche senza sapere il perché.
I peggiori prodotti della tv commerciale si spalmano sul grande schermo e vengono scelti scientemente da persone che pagano deliberatamente un biglietto per vedere questo concentrato di demenza. Il prodotto popolare diretto alle masse non deve essere per forza becero, esiste una grande tradizione di film popolari che mantengono un alto livello comico e artistico, un grande maestro di questo genere è stato ad esempio Mario Monicelli, recentemente scomparso.
Questi tempi cupi per la cultura italiana che stanno crescendo una giovane generazione di ragazzi derubati della cultura un giorno finiranno, ma fino a quel momento non c’è niente da ridere.
Matteo Cavezzali

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venerdì 24 dicembre 2010

Sconsigli di Natale



Nelle feste, complici il freddo e le ferie, le sale si riempiono di pubblico. Ma spesso la spinta verso il cinema è talmente forte che ci si ritrova seduti a vedere film di cui non si sa nulla e ci si deve sorbire delle pellicole atroci.
Per evitare discussioni con parenti e amici davanti alla multisala, è meglio giungere preparati e far valere la propria opinione prima che la mandria prenda la direzione di “Natale in Sudafrica”.

Ecco alcuni consigli e sconsigli su cosa vedere.

Per chi non può esimere dallo “spirito natalizio”  La banda dei Babbi Natale” con Aldo, Giovanni e Giacomo potrebbe essere un buon compromesso. Senza morire a crepapelle, il film è divertente e dignitoso. Anche se il trio non ha più la verve comica dei tempi di “Tre uomini e una gamba” tutto sommato è tutto sommato il male minore.

La cosa peggiore che vi possa capitare è senza dubbio “Natale in Sudafrica”. Di uno squallore urticante il film con De Sica, alcune parti del corpo di Belen e compagnia cantante è uno dei peggiori cine-panettoni degli ultimi anni. Per citare un battutona del film potremmo definirlo come “'no tsunami de merda”. Se i vostri amici-parenti vogliono trascinarvi a questo scempio cinematografico, questo spot della Wind lungo un’ora e mezza, siete autorizzati a fare una scenata in mezzo alla fila della multisala. Per non rovinare il Natale riuscirete forse a deviali su un film meno brutto.

Se vi venisse la strana idea di vedere un buon film, anche se con il tema Natale non ha nulla a che vedere (ma chi se ne frega!) il miglior film in sala è “American life” (“Away We Go” è il titolo originale). La nuova pellicola di Sam Mendes, regista di “American beauty” e “Jahread” è un film ironico sul disfacimento della società americana con una sceneggiatura impeccabile. “Gli Stati Uniti sono una merda, ma gli altri paesi sono le mosche che si posano su questa merda” sintetizza alla perfezione uno dei personaggi. 

Per chi deve accontentare infanti e nipoti la scelta è scarsa. “Le avventure di Sammy” è il cartone animato sul viaggio attraverso l’oceano di una tartarughina. Non sarà il massimo della vita, ma almeno è un film didattico che insegna i valori, adatto a cattolici e ortodossi.
L’altra opzione, per ragazzini dai 10 ai 14 anni, è “Le Cronache di Narnia - Il viaggio del veliero”, ennesimo film fantasy con animali fantastici e effetti speciali da milioni di dollari.

Per gli amanti di scazzottate, esplosioni e di facili romanticherie hollywoodiane “The tourist” non deluderà nessuno, oppure deluderà tutti, a seconda delle aspettative. Diciamo che dopo aver speso l’intero budget del film per Angelina Jolie, Johnny Depp sugli sceneggiatori si è un po’ lesinato…

Del resto, se per scendere a compromessi vi toccherà vedere un film “sòla”, non perdete le staffe e fate un bel pisolino in sala. È il metodo migliore per digerire la lasagna e il panettone farcito.

Matteo Cavezzali

lunedì 6 dicembre 2010

L'ULTIMO ESORCISMO ovvero L'anticristo mena il can per l'aia


Mamma che porcheria. In appena ottantasette minuti di questo barbosissimo horror ce n’è abbastanza per tenersi alla larga per qualche lustro da tutti i film accessoriati di crocifissi, tavole ouije, bibbie e altre cianfrusaglie del genere. Eppure la locandina dice di credere in lui. In lui chi? Boh, si spera non nel signor Eli Roth, che produce con sprezzo del ridicolo questo Ultimo Esorcismo, dove mena il can per l’aia per un’ora abbondante, riuscendo ad annoiare (molto) e a non spaventare (mai). Basterebbe sapere che vergognose panzane come Cabin Fever e Hostel 1 e 2 sono farina del suo sacco, per fare di corsa dietrofront e supplicare la cassiera di farsi cambiare i biglietti. Uomo avvisato.

D’altronde non è che ci si possa aspettare chissà cosa dalle storie sull’anticristo, ormai sul tema si è visto di tutto e di più, per oltre trent’anni si è cercato di rifare il primo Esorcista toppando quasi sempre, anche perché quelli erano davvero altri tempi. Oggi per spaventare sul serio – quando ci si riesce – non basta un letto che trema da solo e una tizia dallo sguardo assente e che si flette meglio di Roberto Bolle. Ma questo non scusa il signor Roth, reo di aver messo in piedi una trama senza capo né coda, con pochissimi momenti di vera tensione, piena dei soliti personaggi balordi e incredibilmente tonti, bravissimi a non avvertire mai il pericolo e a farsi ammazzare come polli.
Tutto accade nella poverissima Louisiana. L’imbroglione Cotton Marcus è un reverendo da quattro soldi: non riuscirebbe più a fingere di credere in Dio neanche sotto tortura, eppure ogni domenica nella squallida chiesetta di Baton Rouge incanta folle di guitti con i suoi sermoni gonfi di belle parole da far venire i lucciconi. Dopo aver passato una vita a esorcizzare l’esorcizzabile, decide di smetterla di raccontarsi patacche: basta, Dio non esiste, il diavolo nemmeno e quindi gli indemoniati sono solo poveri merli facilmente suggestionabili. Ve lo dimostrerò abbindolando un ultimo allocco e filmando tutto quanto con tanto di cameraman.
Senonché gli si presenta il caso di una ragazzotta sedicenne che vive in una scalcinatissima fattoria in mezzo al nulla, accusata dal padre di essere posseduta dal demonio e di sterminare nottetempo uno ad uno gli animali di casa. A guardarla bene in effetti questa adolescentella pallida come la morte, perennemente in anfibi e camicia da notte, sembra un po’ fuori di melone, anche perché la mattina si risveglia ricoperta di sangue dalla cintola in giù. Se non si parlasse dell’anticristo, uno potrebbe pure farsi strane idee. Meglio ricorrere alla prova del nove: facciamole un bel pediluvio, infilandole le estremità in un catino e vediamo che succede. Magia, l’acqua bolle da sola, sarà stato il farabutto Marcus oppure qualcos’altro?
Insomma, quella che doveva essere una farsa, rischia di diventare un massacro. Il punto è che già dopo mezz’ora dove non succede un accidenti di niente, si capisce che tira aria di fuffa. Sarà per colpa degli attori di terza mano, sarà perché di sette sataniche che si radunano per riti incomprensibili e demoni che fanno dire al povero cristo di turno ogni sorta di volgarità con voce da transessuale, uno inizia ad averne piene le tasche. Ma che senso ha un horror in cui non si salta mai sulla sedia? E soprattutto: perché la ragazzotta posseduta gira con un paio di inguardabili Dr. Martens per tutto il film?

Luca Fabbri

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sabato 20 novembre 2010

SAW 3D ovvero Se anche le budella vogliono essere in 3D


Alle volte si va al cinema sapendo che sarà impossibile mantenere un certo decoro. E’ il caso di Saw l’Enigmista, interminabile saga giunta – così dice la locandina, ma fesso chi gli crede – alla volata finale. Per chi non lavora all’obitorio sarà dura non coprirsi ripetutamente gli occhi per il voltastomaco: non c’è scena di questo film senza ossa spaccate, crani squarciati o interiora che schizzano via da corpi tagliati in due dagli infernali marchingegni messi a punto dal bacchettone Enigmista, uno che per hobby smembra il suo prossimo dopo averlo torturato a dovere. Manca giusto il waterboarding e poi Guantanamo gli fa un baffo. Non solo: le vittime di Saw prima di morire si devono pure beccare il predicozzo per tutti i loro vizi, neanche fosse una puntata di Annozero.
Nel SETTIMO capitolo la musica rimane sempre la stessa: gli autori hanno dimostrano anche stavolta di essere autentici fuoriclasse nel reclutare il consueto giro di nullità, una trentina di attori senz’arte nè parte come pochi. Del resto a che serve mettere in piedi un cast stellare se poi non ne rimane uno vivo e alla pellicola successiva tocca rifare tutto daccapo?  Tanto vale raccattare quello che si trova e fare il pieno di incassi col minimo sforzo. La formula funziona visto che ogni episodio della serie ha riempito le sale un po’ ovunque, facendo leva sulla voglia di macabro del pubblico, in aumento tra le nuove generazioni. Anche se resta da capire come ci si possa emozionare con un film del genere, avvincente quanto un pistolotto domenicale di Eugenio Scalfari.
Pronti via e una folla di persone si raduna davanti alla vetrina di un centro commerciale dove due ragazzotti dall’aria poco sveglia sono legati a un tavolo da lavoro. Un congegno fa girare due seghe circolari proprio in direzione del loro torace, e una terza dritto verso l’ombelico di una tizia piuttosto popputa, legata al soffitto come un insaccato. Il solito fantoccio rompiballe creato da Saw arriva pedalando sul triciclo e mette i due poveretti di fronte alla dura verità: avete 60 secondi per salvare la vita di uno di voi due, o quella della vostra amata lì in alto (la quale in passato ha abbondantemente cornificato entrambi, infilandosi nel lettone dell’uno e dell’altro). Fate la vostra scelta.
Qualche scena dopo il fanfarone Gordon, uno dei rari sopravvissuti ai massacri di Saw, in perfetto stile Patrizia D’Addario fa la spola da uno studio televisivo all’altro per promuovere il suo libro: mica sono così scemo da non pubblicare la mia verità, devo raccontare tutto quanto nel classico volumetto da autogrill (che qualche giornale spaccerà senz’altro per pietra miliare), perché sapete com’è anche io tengo famiglia. Il piano sembra perfetto per arricchirsi, se non fosse che niente sfugge a SawGordon l’ha sparata grossa, è un impostore, dovrà pagare con il suo sangue.
Insomma, comunque la si giri, la storia fa acqua da tutte le parti, ma in fondo chi per vedere una scemenza del genere è disposto a spendere 10 euro (le budella in 3d sono tutt’altra cosa, figuriamoci), lo sa perfettamente. E così, tra Gordon che si toglie due molari senza anestesia, perché è nei denti che Saw ha impresso i numeri della combinazione per fermare l’ennesimo marchingegno mortale, e il corpo di qualche pettoruta fanciulla fatto a pezzi impunemente, i cadaveri si accumulano che è un piacere e il film con qualche sbadiglio arriva alla conclusione.Per ko tecnico, si intende: non è rimasto più nessuno da ammazzare.
Luca Fabbri

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mercoledì 17 novembre 2010

DEVIL ovvero Il diavolo odia fare le scale


Non si può non voler bene al regista M. Night Shyamalan. Quest’uomo ha la sbalorditiva capacità di non azzeccarne mai una. Mica semplice, ci vuole talento. Tutto quello che tocca si trasforma in schifezza: da Signs a The Village fino a The Happening – E venne il giorno, non c’è lavoro dello sceneggiatore indiano che abbia un verso. Ogni volta sembra quasi che lo faccia apposta a incasinare il copione per rendere la storia sempre più bislacca. E alla fine si esce dal cinema un po’ frastornati, sbronzi del nulla, a chiedersi come sia possibile buttare via così 7 euro.

Quasi spiace ammetterlo ma forse con Devil qualcosa è cambiato. Devil infatti è SOLO bruttino, non sembra quasi un’idea di Shyamalan. A questo giro il nostro ha studiato, si è sbattuto, si è evoluto. Ha addirittura messo in piedi una storia comprensibile, l’ha girata al regista John Erick Dowdle che ha saputo dare ai fatti un certo ritmo fino alla fine. Dove però, inesorabile, viene fuori il tocco di Shyamalan. E a quel punto scende subito la notte.

Dunque siamo a Philadelphia. Cinque reietti – una guardia giurata con più precedenti penali di Totò Cuffaro, la solita gnocca moderatamente svestita, una vecchia isterica e cleptomane, un odioso impresario, un ex marine dall’oscuro passato spedito in Afghanistan – entrano in un grattacielo e, caso vuole, si ritrovano in’ascensore. Tutti dentro, si sale. Senonché dopo qualche piano qualcosa va storto, i poveracci rimangono bloccati all’interno e finiscono non si sa come nelle mani del diavolo. Il quale si diverte come un matto a combinarne d’ogni, a sfasciare i vetri dell’ascensore, a far saltare la luce e – ovviamente – ad ammazzare a turno gli sventurati dopo averli messi l’uno contro l’altro.

Ognuno ha qualcosa da nascondere e uno di loro non è ciò che sembra, o almeno così dice la locandina per convincermi ad andare al cinema. Dopo il consueto bagno di sangue si arriva al finale: chi in passato l’ha fatta troppo grossa dovrà pagare (con gli interessi) per le sue colpe. Otterrà il perdono divino?
Il colpo di scena non salva lo spettatore dalla cascata di melassa buonista del finale, macchinoso e sconclusionato. Devil se non altro ha un pregio: dura poco. Il che non guasta di questi tempi, in cui anche Massimo Boldi tira avanti le sue ributtanti commediole per più di due ore. Ma dopo anche questo fallimento non si capisce quali santi abbia Shyamalan per non essere ancora stato interdetto a vita dalla professione. Riprovaci ancora, M. Night.
Luca Fabbri

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martedì 26 ottobre 2010

PARANORMAL ACTIVITY 2 ovvero Un film costato come un paio di ciabatte dell'Upim


E va bene. Lo dico sottovoce, sapendo che sarò seppellito di insulti: Paranormal Activity 2 è un film che funziona. Riesce nella non indifferente impresa di fare paura nel 2010. Ok, forse “paura” è una parola grossa: diciamo che mette un bel po’ di inquietudine, pur avendo – come tutti gli horror degli ultimi anni – i suoi bei momenti di puro cazzeggio (gridolini, sclerate varie, risatine ormonali, scatti di machismo ecc.) che superano abbondantemente la soglia del ridicolo. Però un paio di salti sulla sedia li ho fatti. E dire che ero andato al cinema con la certezza che la mia serata, come spesso succede con boiate di questo genere, sarebbe finita in vacca. Mi sbagliavo.

Il primo capitolo era costato quanto un paio di ciabatte dell’Upim, i protagonisti formavano una coppia di favolose nullità pescati su Craigslist (Wikipedia parla di 500 dollari a testa come compenso pattuito), e Oren Peli era un signor nessuno, una carriera tutta da costruire e probabilmente il mutuo da pagare.  Il suo film è stato deriso in milioni di modi: su YouTube sono cliccatissime parodie e prese per i fondelli doppiate in tutte le lingue del pianeta, e non è dato sapere se a qualcuno sia pure piaciuto, fatto sta che – come spesso succede per fenomeni da baraccone simili – in milioni lo sono andati a vedere. Il caso cinematografico dell’anno. Visti gli incassi superiori al PIL di qualche decina di paesi africani messi insieme,  i furbacchioni di Hollywood hanno sfornato il seguito dopo appena qualche mese. Non c’è da stracciarsi le vesti: pecunia non olet, punto e basta.

Per essere sicuri di non steccare, gli autori di Paranormal Activity 2 hanno pensato bene di scopiazzare a man bassa da Paranormal Activity 1. Tant’è che nella trama, ambientata qualche giorno prima degli eventi del primo episodio, ricompare pure la coppia di sgangherati protagonisti.

Zero novità, zero fantasia; tutto è stato meticolosamente messo a punto per rifare di nuovo lo stesso film, solo con meno momenti morti: telecamere pressoché fisse, questa volta piazzate in diversi angoli della casa a mò di Grande Fratello, porte che si aprono e sbattono da sole, pentole appese in mezzo alla cucina che cadono nel cuore della notte, qualcosa di innafferrabile che arriva quando meno te lo aspetti, gente trascinata dal nulla giù per le scale, tonfi da far tremare il pavimento e soprattutto il silenzio che avvolge ogni stanza. Il pastore tedesco ringhia come se avesse visto chissà cosa, la domestica lancia macumbe per esorcizzare il demonio, la famigliola non sa che pesci pigliare. Va da sè che a nessuno viene la banale idea di prendere la macchina e andare a tavoletta via dall’inferno, sennò tutto finirebbe dopo 5 minuti. La storia – che a malapena si regge in piedi – neanche a dirlo  rimane irrisolta, ci sarà di sicuro un sequel e probabilmente un altro prequel, magari con titoli mai visti come “Apocalypse“, “Evolution” o “Legacy“.

Insomma, trattasi di una spudorata operazione commerciale studiata a tavolino per battere il ferro finché è caldo e portare le masse al cinema. Si da il caso però che questa volta la suddetta operazione commerciale studiata a tavolino riesca fare quello che deve fare un film di questo genere: mettere tensione. Complice il silenzio, le inquadrature e il colore da paranoia delle riprese notturne. In fin dei conti tutto dipende dalla ragione per cui si va a vedere un horror. Qui un’ora e mezza fila via senza sbadigliare e qualche volta ci si spaventa pure. Serve altro?
Luca Fabbri

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mercoledì 20 ottobre 2010

BURIED, ovvero Sepolto dall'incompetenza dell'esercito USA


Un po’ sono deluso da Buried. Devo ammetterlo, ero andato in sala per avere un film da massacrare e invece… è un bel film!
Sepolto, sotto tre metri di terra, un uomo sigillato in una cassa di legno ha solo un cellulare con cui chiedere aiuto e un’ora e mezza di tempo prima di morire soffocate. Ciò che potrebbe essere lo spunto per un pessimo film dell’orrore diventa invece punto di partenza di un thriller acuto e originale. L’uomo è un camionista che lavora per rifornire le truppe americane in Iraq che è stato rapito e sepolto da un gruppo di iracheni (“siamo terroristi perché ti terrorizziamo? E voi che mi avete ucciso tre figli cosa siete?” gli chiede il rapitore al telefono). Il film ha diversi pregi inaspettati. Il pubblico trascorre tutti i novanta minuti del film nella cassa con il protagonista. Nessuna scena all’aperto, nessun flashback. Nonostante questo “Buried” riesce a mantenere un ritmo incalzante e questa restrizione spaziale che poteva essere un limite diventa un pregio. Il regista spagnolo Rodrigo Cortés inventa innumerevoli trovate stilistiche per dare dinamicità alle riprese nello spazio angusto con inquadrature particolari e movimenti di camera danno un senso di claustrofobia. Non ha bisogno di nessuna trovata eclatante, nessuna esplosione o sparatoria, ma solo una serie di telefonate e respiri affannosi nella penombra.
Cortés prende spunto dallo stato di abbandono in cui si ritrova il protagonista per fare una feroce critica al metodo con cui è condotta la guerra in Iraq e al modo in cui i civili americani coinvolti nella “ricostruzione” siano in realtà abbandonati a se stessi. L’unico interesse dell’esercito pare quello di non far conoscere la brutta faccenda ai mass media. L’uomo che telefona da sottoterra mentre la sua vita è agli sgoccioli viene lasciato in attesa con una musichetta. L’incapacità delle persone di capire la reale entità del problema angoscia lo spettatore perché ha le tinte della verità quotidianità. Con un budget veramente ridotto questa produzione spagnola è riuscita a girare un film veramente interessante che pare un moderno racconto di Edgar Allan Poe.


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venerdì 1 ottobre 2010

L’ULTIMO DOMINATORE DELL’ARIA ovvero Un film che avete già visto, anche se non l’avete ancora visto



Dieci caffé al bar, un libro, un biglietto del treno Ravenna Bologna andata/ritorno, 42 uova, questi sono solo alcuni dei modi in cui potreste spendere meglio i dieci euro del biglietto della proiezione 3D de “L’ultimo dominatore del vento”.
Il film dalla trama infantile e ridondante ha solo un pregio, quello di mettere perfettamente a  nudo il giochetto delle case di produzione per fabbricare pellicole da “incasso sicuro”. Il metodo è quello di prendere i film che hanno sbancato il botteghino e replicarne i tratti distintivi. Questa pratica che è sempre stata applicata, spesso anche con ottimi risultati, in tempo di crisi si è fatta talmente plateale da togliere ogni minimo aspetto innovativo alle pellicole. “L’ultimo dominatore dell’aria” potrebbe essere studiato nelle scuole di cinema come esempio di frankenstein cinematografico. La struttura e l’ambientazione è presa dal Signore degli Anelli, il personaggio bambino-monaco che si reincarna è il piccolo Dalai Lama di “Kundun”, i ragazzi che devono imparare a dominare gli elementi sono i maghetti di “Harry Potter”, il mostro peloso gigante è lo stesso de “La storia infinita”, i combattimenti kung-fu a rallentatore sono i copiatissimi effetti di “Matrix”, eccetera.
A dare un tono di finto impegno non può mancare l’ambientalismo da due lire (anzi due dollari) di Avatar con tanto di personaggi che lottano per salvare un pesce-“spirito della luna” dai cattivi.

Il film riesce ad essere di un didascalico disarmante sfoggiando un manicheismo “buoni contro cattivi” molto rassicurante. I personaggi non fanno altro che spiegare cosa stanno facendo ripetendo “stiamo facendo questo per questo motivo!”.
Esempio di dialogo:
“devo trovare l’avatar per poter essere riammesso come figlio del re”
“ma cosa stai facendo?”
“sto cercando l’avatar per poter essere riammesso come figlio del re”
“ma perché lo stai facendo?”
“per poter essere riammesso come figlio del re”
“ha! Ma quindi stai cercando l’avatar per poter essere riammesso come figlio del re!”
“Ebbene sì, lo confesso, sto cercando l’avatar per poter essere riammesso come figlio del re”

Il tocco di genio degli studios è quello di inserire un nome d’autore nel film per dare (a parer loro) un’autorevolezza al prodotto. I casi di questo genere sono innumerevoli quanto inspiegabili: da Ang Lee con “Hulk” a Tim Burton con “Alice in Wonderland”. Questa volta a prestarsi è stato M. Night Shyamalan, regista del “Sesto senso”, che ha venduto il suo nome-marchio a un film che potrebbe aver diretto veramente chiunque.

Insomma gli ingredienti della ricetta sono stati ben scelti, ma amalgamati male, manca il sale e soprattutto la passione.

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giovedì 9 settembre 2010

NIGHTMARE ovvero Il mostro che arriva col sonno...


“Non addormentarti!” si ripetono i personaggi del film per non incontrare l’assassino che colpisce le sue vittime nei sogni. “Non addormentarti!” mi ripeto anch’io per riuscire ad arrivare ad occhi aperti alla fine del noiosissimo film. Si può dire che l’immedesimazione ha funzionato… Dopo averlo ucciso e riucciso, tritato e rimasticato ecco ancora camminare tra noi Freddy Kruger (con il suo inconfondibile maglioncino a righe blu e rosse) nel nono film di Nightmare di cui si sentiva veramente un grande bisogno. Dopo la fine segnata nell’ultimo episodio della saga intitolato “Nightmare - La fine”, dove Freddy viene definitivamente sconfitto grazie all’aiuto di un medico-vodoo (?), pareva che la lunga agonia dei ragazzini di Elm Street fosse definitivamente finita. L’unico modo per far tornare il personaggio senza scatenare l’ira dei fan era una: ricominciare tutto da capo. Nightmare 2010 infatti è un remake. Si ritorna alla prima puntata in una versione rimaneggiata del primo “storico” episodio firmato da Wes Craven nel 1984, con più effetti speciali e meno patos.


Questo nono film sullo sfigurato mostro dalle dita puntute non riserva sorprese e pare una serie di scene da trailer infilate una dietro l’altra senza una continuità narrativa. La regia patinata e la fotografia digitale fa perdere il gusto del vecchio horror con immagini sporche e inquietanti che ti tiene incollato alla sedia anche senza grandi scene spettacolari come Craven aveva saputo fare negli anni ’80. Oggi la situazione è ribaltata: i troppi mezzi a disposizione hanno impigrito gli sceneggiatori facendogli sostituire cervellotiche trovate narrative con meno impegnativi inseguimenti e incendi. Freddy Kruger pare ormai spompato e spremuto come una buccia d’arancia, non ha più nemmeno la vena auto-ironica che rendeva più simpatico il personaggio nei primi episodi della serie. L’unico vero brivido giunge sul finale aperto: non avranno intenzione di rifare tutti e otto i film della serie!?

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PREDATORS ovvero L'importante è che gli alieni si menino di santa ragione


Ci sono un messicano, un africano, un giapponese, un americano e una bella ragazza in mezzo alla giungla… sembra l’inizio di una barzelletta, invece è l’inizio di Predators. Inutile dire che giunti al quinto capitolo della saga dopo, “Predator”, “Predator 2”, “Alien vs Predator” e “Alien vs Predator 2”, le idee sui mostruosi cacciatori di teste alieni sono finite da un pezzo, ma il pubblico pretendeva l’ennesimo film e allora… La trama è stata ridotta all’osso. In fondo bastava un pretesto per far menare le mani a un po’ di persone armate contro i mostruosi predator. La trama è la seguente: “gli uomini più violenti della terra sono stati portati su un pianeta alieno per essere prede di una partita di caccia dei predator”, fine (la trama non è riassunta, ma è tutta qui ndr). Il gusto della pellicola però, per i palati più raffinati, consiste proprio in questa sua scarna struttura. È un B-movie a tutti gli effetti senza nulla da invidiare ai classici del genere anni ’70, sta tra “Cannibal holocaust” e “Spaceman contro i vampiri dello spazio”. Tutti i clichè del genere sono rispettati fedelmente e i personaggi (dal mercenario in stile Vietnam al malavitoso delle cosche sudamericane) sono in perfetto stile fumetto. Per passare meglio i 107 minuti della pellicola si consiglia di scommettere l’ordine in cui i personaggi verranno trucidati. Può essere un buon test per capire quanto conoscete gli stereotipi del genere che seguono una partitura ben definita anche nella sequenza dell’uscita di scena dei personaggi per trivellazione di colpi o decollazione. Si segnala come “perla kitch” il duello tra il killer giapponese della yakuza armato di spadone da samurai contro l’alieno con spada aliena su un tappeto sonora di zufoletti orientali da film di Bruce Lee. Unica nota fuori contesto è la presenza di Adrien Brody nel cast. Ma chi glielo ha fatto fare?

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Twilight - Eclipse ovvero I vampiri succhiano soldi ai teenager


Tornano i pallidi vampiri che fanno impazzire le ragazzine. In quanti ricordano terrorizzati il volto famelico con i denti aguzzi dell’attore ungherese Bela Lugosi che con il primo “Dracula” fece tremare gli Usa nel 1931 con la regia del maestro delle mostruosità Tod Browning? Bene, dimenticatelo e risotterratelo nella sua cripta. Se un tempo vampiri sul grande schermo terrorizzavano il pubblico con pipistrelli, aglio e paletti di frassino creando un immaginario che ha dato vita a pellicole storiche come “Nosferatu” di Murnau e la sua rilettura di Herzog, o come il “Dracula di Bram Stoker” di Coppola, oggi nonno conte Dracula è stato messo allo spizio da un gruppo di pallidi ragazzetti americani dai denti a punta.


Il sole che ha ridotto in polvere i non-morti transilvani si chiama “moda”. Oggi i vampiri sono belli, giovani e “cool”. Hanno vestiti all’ultimo grido, ciuffi di capelli piegati col gel, sono poco abbronzati, sono “emo” (moda giovanile basata su abiti scuri, frange sbilenche e sguardo spento). Così è nata una serie potenzialmente infinita di “vampiri alla moda” tra cui bisogna riconoscere a Twilight di essere tra i capostipite di questa deriva del genere e che con Eclipse diventa trilogia (ed è già in preparazione il quarto).

Se alla gotica Transilvania sostituite Forks nello stato di Washington, al castello con le ragnatele i banchi di scuola e alla sapiente penna di Bram Stoker la sensibilità verso il mercato e i botteghini della scrittrice Stephenie Meyer avrete un’idea di cos’è Eclipse. Due “fustacchioni” in età da picco di ormoni si contendono Bella, di nome e di fatto. La bella Bella è indecisa se stare con il diciassettenne vampiro Edward o concedersi al muscoloso licantropo Jacob. A disturbare il triangolo amoroso arrivano pure la vampira Victoria e un branco di licantropi inferociti. La storia d’amore viene così “arricchita” da scontri adrenalinici e frenetici, musica rock e un po’ di sangue qua e là, creando una pellicola perfetta per il primo appuntamento tra due adolescenti che vogliono restare un po’ al buio senza doversi concentrare troppo sulla trama del film. Vietato ai maggiori di anni 17.

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SCUSA MA TI VOGLIO SPOSARE ovvero Moccia non ti scusiamo


Prendete un regista che non è un regista, un libro che non è un libro e degli attori che non sono degli attori ed avrete “Scusa ma ti voglio sposare”. Simile a una corrida di dilettanti allo sbaraglio, la marmellata romanticosa di Moccia impantana svampite adolescenti tra sospiri “d’ammore” e pop corn. “È il mio giovane Holden al femminile” ha dichiarato Moccia per tormentare l’anima dell’appena defunto Salinger, dimostrando non solo di non saper scrivere, ma di non saper nemmeno leggere. L’unica cosa sincera del film, sequel del tristemente famoso “Scusa ma ti chiamo amore” è il titolo. L’autore ha almeno il buon gusto di chiedere “scusa” prima di ogni suo film.


Per non farci mancare niente c’è anche la sublime colonna sonora firmata Zero Assoluto (anche loro con un nome sincero).

Veniamo all’imbarazzante trama: Niki e Alex si amano, come la raffinata sceneggiatura lascia intuire dal martellante ripetersi della battuta “ti amo”. Si amano e quindi vanno anche in vacanza a Parigi “la città degli innamorati”. Ma per non sopravvalutare il suo pubblico, lo scaltro Moccia, inserisce anche le voci fuoricampo che ci tengono continuamente informati sui cambi di umore degli imprevedibili amanti ricordandoci che per chi non lo avesse capito i due “si amano”. Ma le poesie che il terzo incomodo Guido dedica a Niki per chat sono scoperte da Alex sul di lei computer, e a quel punto il dramma è alla soglia. Anticipare il finale sarebbe un peccato, visto l’inatteso e imprevedibile colpo di scena, è giusto lasciare i lettori sulle spine: finirà che i due si sposano felici e contenti o ci sarà un tormentato finale aperto, introspettivo e psicologico, alla Bergman?

I riferimenti alla peggio tv sono espliciti anche nel cast che spazia da “vecchie glorie” del Grande Fratello ai maldestri ballerini di Ballando con le Stelle.

Un consiglio allo scrittore-regista-poeta Moccia: meglio che si dedichi a tempo pieno a scrivere le frasi “d’ammore” sui Baci Perugina. È il lavoro che più gli compete.

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ESTATE AI CARAIBI ovvero Purtroppo ci tocca stare in Italia

Un critico del noto quotidiano francese Liberation, spinto da qualche malsana curiosità, è andato a vedere “Estate ai Caraibi”. Ha commentato affermando che la pellicola, seppur di nessun valore cinematografico, potrà essere usata dai sociologi del futuro per esaminare la società italiana all’epoca del berlusconismo. In effetti l’ultimo cinecocomero dei fratelli Vanzina mette in risalto, involontariamente, gli aspetti peggiori del made in Italy. Stereotipi femminili tra veline e villa Certosa, imprenditori furbetti e ladruncoli, doppi sensi e battute non proprio esilaranti. C’è addirittura un’apparizione proprio di Berlusconi (un sosia), che però non raggiunge le vette di comicità dell’originale.


I Caraibi peggiorano il goffo “Estate al mare” dell’anno scorso. Il solito susseguirsi di episodi con i soliti protagonisti Enrico Brignano, Carlo Buccirosso, Biagio Izzo e le starlette Martina Stella e Alena Seredova. Non quaglia nemmeno Gigi Proietti, che appare stanco e svogliato.

Se le commedie sull’arte di arrangiarsi di Totò hanno connotato il dopoguerra in un’Italia vogliosa di riscattarsi. Se la comicità di Alberto Sordi fu il simbolo del boom economico e Fantozzi è stato icona del consumismo impiegatizio. Da quindici anni i Vanzina dipingono un quadro agghiacciante dell’Italia. Possibile che sia davvero così drammaticamente realistico? I botteghini paiono dargli ragione. Speriamo che sbaglino.

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LA FIDANZATA DI PAPÀ ovvero Comicità al minimo storico


Dopo aver sbattuto la porta in faccia a Neri Parenti e Christian De Sica, perché “scaduti nella volgarità”, il paladino dell’arte comica Massimo Boldi torna al cinema con “La fidanzata di papà”. La scoppiettante ironia e la battuta vezzosa non sono mai state alla base del cinema del tozzo comico lombardo, noto, al contrario, per essere un po’ volgarotto. Dopo le dichiarazioni di Boldi, però, che sottolineavano come lui, in prima persona, si fosse preoccupato di dare contegno alla pellicola, epurandone le scene più volgari, qualche ingenuo si era forse fatto persuaso di un cambiamento (?). Inutile dirsi che il compito del censore era quantomeno imponente. Rimane inimmaginabile cosa potesse nascondersi nelle scene scartate da un pellicola intrisa di doppi sensi imbarazzanti, botte nei testicoli, e una terrificante scena di nudo con Massimo Boldi come mamma l’ha fatto. Forse il fiscalissimo comico ha tagliato le inquadrature dove apparivano le sue vergogne? Ma ha drammaticamente lasciato il resto. Su una trama superflua e raffazzonata, fatta di equivoci e litigi, sono incollati sketch vecchi e stantii con comici ripescati dalla peggior televisione (dalla conduttrice Simona Ventura, ai pessimi Enzo Salvi, Biagio Izzo en travesti con tanto di parrucca, Nino Frassica in smunto rispolvero, Teresa Mannino e i redivivi Fichi d’India). Lo sfondo di Miami, inoltre, dona quel po’ di cialtroneria in più, di cui, francamente, si sentiva proprio la mancanza. Ma come fare un cine-panettone senza un po’ di “carnaza”? La materia prima è fornita da Natalia Bush, Elisabetta Canalis e un nugolo di anonime siliconofile. Le varie battutacce non riescono nemmeno ad inserirsi in un contesto narrativo omogeneo, ma appaiono come tanti frammenti sconclusionati e svincolati l’uno dall’altro. Più che un film risulta una sorta di zapping televisivo tra sketch alla Zelig, in cui la battuta è talmente prevedibile da risultare quasi offensiva.


La pellicola, oltre a scandire un ulteriore gradino verso l’abisso del cinema nostrano, segna anche un terrificante traguardo verso appiattimento dell’encefalogramma del nostro stivale. Infatti il film, anziché far finire sul lastrico produttori e attori (come avrebbero meritato da tempo) ha già incassato oltre 6.000.000 euro. Tratto da una storia vera, la nostra.

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