martedì 26 ottobre 2010

PARANORMAL ACTIVITY 2 ovvero Un film costato come un paio di ciabatte dell'Upim


E va bene. Lo dico sottovoce, sapendo che sarò seppellito di insulti: Paranormal Activity 2 è un film che funziona. Riesce nella non indifferente impresa di fare paura nel 2010. Ok, forse “paura” è una parola grossa: diciamo che mette un bel po’ di inquietudine, pur avendo – come tutti gli horror degli ultimi anni – i suoi bei momenti di puro cazzeggio (gridolini, sclerate varie, risatine ormonali, scatti di machismo ecc.) che superano abbondantemente la soglia del ridicolo. Però un paio di salti sulla sedia li ho fatti. E dire che ero andato al cinema con la certezza che la mia serata, come spesso succede con boiate di questo genere, sarebbe finita in vacca. Mi sbagliavo.

Il primo capitolo era costato quanto un paio di ciabatte dell’Upim, i protagonisti formavano una coppia di favolose nullità pescati su Craigslist (Wikipedia parla di 500 dollari a testa come compenso pattuito), e Oren Peli era un signor nessuno, una carriera tutta da costruire e probabilmente il mutuo da pagare.  Il suo film è stato deriso in milioni di modi: su YouTube sono cliccatissime parodie e prese per i fondelli doppiate in tutte le lingue del pianeta, e non è dato sapere se a qualcuno sia pure piaciuto, fatto sta che – come spesso succede per fenomeni da baraccone simili – in milioni lo sono andati a vedere. Il caso cinematografico dell’anno. Visti gli incassi superiori al PIL di qualche decina di paesi africani messi insieme,  i furbacchioni di Hollywood hanno sfornato il seguito dopo appena qualche mese. Non c’è da stracciarsi le vesti: pecunia non olet, punto e basta.

Per essere sicuri di non steccare, gli autori di Paranormal Activity 2 hanno pensato bene di scopiazzare a man bassa da Paranormal Activity 1. Tant’è che nella trama, ambientata qualche giorno prima degli eventi del primo episodio, ricompare pure la coppia di sgangherati protagonisti.

Zero novità, zero fantasia; tutto è stato meticolosamente messo a punto per rifare di nuovo lo stesso film, solo con meno momenti morti: telecamere pressoché fisse, questa volta piazzate in diversi angoli della casa a mò di Grande Fratello, porte che si aprono e sbattono da sole, pentole appese in mezzo alla cucina che cadono nel cuore della notte, qualcosa di innafferrabile che arriva quando meno te lo aspetti, gente trascinata dal nulla giù per le scale, tonfi da far tremare il pavimento e soprattutto il silenzio che avvolge ogni stanza. Il pastore tedesco ringhia come se avesse visto chissà cosa, la domestica lancia macumbe per esorcizzare il demonio, la famigliola non sa che pesci pigliare. Va da sè che a nessuno viene la banale idea di prendere la macchina e andare a tavoletta via dall’inferno, sennò tutto finirebbe dopo 5 minuti. La storia – che a malapena si regge in piedi – neanche a dirlo  rimane irrisolta, ci sarà di sicuro un sequel e probabilmente un altro prequel, magari con titoli mai visti come “Apocalypse“, “Evolution” o “Legacy“.

Insomma, trattasi di una spudorata operazione commerciale studiata a tavolino per battere il ferro finché è caldo e portare le masse al cinema. Si da il caso però che questa volta la suddetta operazione commerciale studiata a tavolino riesca fare quello che deve fare un film di questo genere: mettere tensione. Complice il silenzio, le inquadrature e il colore da paranoia delle riprese notturne. In fin dei conti tutto dipende dalla ragione per cui si va a vedere un horror. Qui un’ora e mezza fila via senza sbadigliare e qualche volta ci si spaventa pure. Serve altro?
Luca Fabbri

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mercoledì 20 ottobre 2010

BURIED, ovvero Sepolto dall'incompetenza dell'esercito USA


Un po’ sono deluso da Buried. Devo ammetterlo, ero andato in sala per avere un film da massacrare e invece… è un bel film!
Sepolto, sotto tre metri di terra, un uomo sigillato in una cassa di legno ha solo un cellulare con cui chiedere aiuto e un’ora e mezza di tempo prima di morire soffocate. Ciò che potrebbe essere lo spunto per un pessimo film dell’orrore diventa invece punto di partenza di un thriller acuto e originale. L’uomo è un camionista che lavora per rifornire le truppe americane in Iraq che è stato rapito e sepolto da un gruppo di iracheni (“siamo terroristi perché ti terrorizziamo? E voi che mi avete ucciso tre figli cosa siete?” gli chiede il rapitore al telefono). Il film ha diversi pregi inaspettati. Il pubblico trascorre tutti i novanta minuti del film nella cassa con il protagonista. Nessuna scena all’aperto, nessun flashback. Nonostante questo “Buried” riesce a mantenere un ritmo incalzante e questa restrizione spaziale che poteva essere un limite diventa un pregio. Il regista spagnolo Rodrigo Cortés inventa innumerevoli trovate stilistiche per dare dinamicità alle riprese nello spazio angusto con inquadrature particolari e movimenti di camera danno un senso di claustrofobia. Non ha bisogno di nessuna trovata eclatante, nessuna esplosione o sparatoria, ma solo una serie di telefonate e respiri affannosi nella penombra.
Cortés prende spunto dallo stato di abbandono in cui si ritrova il protagonista per fare una feroce critica al metodo con cui è condotta la guerra in Iraq e al modo in cui i civili americani coinvolti nella “ricostruzione” siano in realtà abbandonati a se stessi. L’unico interesse dell’esercito pare quello di non far conoscere la brutta faccenda ai mass media. L’uomo che telefona da sottoterra mentre la sua vita è agli sgoccioli viene lasciato in attesa con una musichetta. L’incapacità delle persone di capire la reale entità del problema angoscia lo spettatore perché ha le tinte della verità quotidianità. Con un budget veramente ridotto questa produzione spagnola è riuscita a girare un film veramente interessante che pare un moderno racconto di Edgar Allan Poe.


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venerdì 1 ottobre 2010

L’ULTIMO DOMINATORE DELL’ARIA ovvero Un film che avete già visto, anche se non l’avete ancora visto



Dieci caffé al bar, un libro, un biglietto del treno Ravenna Bologna andata/ritorno, 42 uova, questi sono solo alcuni dei modi in cui potreste spendere meglio i dieci euro del biglietto della proiezione 3D de “L’ultimo dominatore del vento”.
Il film dalla trama infantile e ridondante ha solo un pregio, quello di mettere perfettamente a  nudo il giochetto delle case di produzione per fabbricare pellicole da “incasso sicuro”. Il metodo è quello di prendere i film che hanno sbancato il botteghino e replicarne i tratti distintivi. Questa pratica che è sempre stata applicata, spesso anche con ottimi risultati, in tempo di crisi si è fatta talmente plateale da togliere ogni minimo aspetto innovativo alle pellicole. “L’ultimo dominatore dell’aria” potrebbe essere studiato nelle scuole di cinema come esempio di frankenstein cinematografico. La struttura e l’ambientazione è presa dal Signore degli Anelli, il personaggio bambino-monaco che si reincarna è il piccolo Dalai Lama di “Kundun”, i ragazzi che devono imparare a dominare gli elementi sono i maghetti di “Harry Potter”, il mostro peloso gigante è lo stesso de “La storia infinita”, i combattimenti kung-fu a rallentatore sono i copiatissimi effetti di “Matrix”, eccetera.
A dare un tono di finto impegno non può mancare l’ambientalismo da due lire (anzi due dollari) di Avatar con tanto di personaggi che lottano per salvare un pesce-“spirito della luna” dai cattivi.

Il film riesce ad essere di un didascalico disarmante sfoggiando un manicheismo “buoni contro cattivi” molto rassicurante. I personaggi non fanno altro che spiegare cosa stanno facendo ripetendo “stiamo facendo questo per questo motivo!”.
Esempio di dialogo:
“devo trovare l’avatar per poter essere riammesso come figlio del re”
“ma cosa stai facendo?”
“sto cercando l’avatar per poter essere riammesso come figlio del re”
“ma perché lo stai facendo?”
“per poter essere riammesso come figlio del re”
“ha! Ma quindi stai cercando l’avatar per poter essere riammesso come figlio del re!”
“Ebbene sì, lo confesso, sto cercando l’avatar per poter essere riammesso come figlio del re”

Il tocco di genio degli studios è quello di inserire un nome d’autore nel film per dare (a parer loro) un’autorevolezza al prodotto. I casi di questo genere sono innumerevoli quanto inspiegabili: da Ang Lee con “Hulk” a Tim Burton con “Alice in Wonderland”. Questa volta a prestarsi è stato M. Night Shyamalan, regista del “Sesto senso”, che ha venduto il suo nome-marchio a un film che potrebbe aver diretto veramente chiunque.

Insomma gli ingredienti della ricetta sono stati ben scelti, ma amalgamati male, manca il sale e soprattutto la passione.

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