giovedì 9 settembre 2010

NIGHTMARE ovvero Il mostro che arriva col sonno...


“Non addormentarti!” si ripetono i personaggi del film per non incontrare l’assassino che colpisce le sue vittime nei sogni. “Non addormentarti!” mi ripeto anch’io per riuscire ad arrivare ad occhi aperti alla fine del noiosissimo film. Si può dire che l’immedesimazione ha funzionato… Dopo averlo ucciso e riucciso, tritato e rimasticato ecco ancora camminare tra noi Freddy Kruger (con il suo inconfondibile maglioncino a righe blu e rosse) nel nono film di Nightmare di cui si sentiva veramente un grande bisogno. Dopo la fine segnata nell’ultimo episodio della saga intitolato “Nightmare - La fine”, dove Freddy viene definitivamente sconfitto grazie all’aiuto di un medico-vodoo (?), pareva che la lunga agonia dei ragazzini di Elm Street fosse definitivamente finita. L’unico modo per far tornare il personaggio senza scatenare l’ira dei fan era una: ricominciare tutto da capo. Nightmare 2010 infatti è un remake. Si ritorna alla prima puntata in una versione rimaneggiata del primo “storico” episodio firmato da Wes Craven nel 1984, con più effetti speciali e meno patos.


Questo nono film sullo sfigurato mostro dalle dita puntute non riserva sorprese e pare una serie di scene da trailer infilate una dietro l’altra senza una continuità narrativa. La regia patinata e la fotografia digitale fa perdere il gusto del vecchio horror con immagini sporche e inquietanti che ti tiene incollato alla sedia anche senza grandi scene spettacolari come Craven aveva saputo fare negli anni ’80. Oggi la situazione è ribaltata: i troppi mezzi a disposizione hanno impigrito gli sceneggiatori facendogli sostituire cervellotiche trovate narrative con meno impegnativi inseguimenti e incendi. Freddy Kruger pare ormai spompato e spremuto come una buccia d’arancia, non ha più nemmeno la vena auto-ironica che rendeva più simpatico il personaggio nei primi episodi della serie. L’unico vero brivido giunge sul finale aperto: non avranno intenzione di rifare tutti e otto i film della serie!?

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PREDATORS ovvero L'importante è che gli alieni si menino di santa ragione


Ci sono un messicano, un africano, un giapponese, un americano e una bella ragazza in mezzo alla giungla… sembra l’inizio di una barzelletta, invece è l’inizio di Predators. Inutile dire che giunti al quinto capitolo della saga dopo, “Predator”, “Predator 2”, “Alien vs Predator” e “Alien vs Predator 2”, le idee sui mostruosi cacciatori di teste alieni sono finite da un pezzo, ma il pubblico pretendeva l’ennesimo film e allora… La trama è stata ridotta all’osso. In fondo bastava un pretesto per far menare le mani a un po’ di persone armate contro i mostruosi predator. La trama è la seguente: “gli uomini più violenti della terra sono stati portati su un pianeta alieno per essere prede di una partita di caccia dei predator”, fine (la trama non è riassunta, ma è tutta qui ndr). Il gusto della pellicola però, per i palati più raffinati, consiste proprio in questa sua scarna struttura. È un B-movie a tutti gli effetti senza nulla da invidiare ai classici del genere anni ’70, sta tra “Cannibal holocaust” e “Spaceman contro i vampiri dello spazio”. Tutti i clichè del genere sono rispettati fedelmente e i personaggi (dal mercenario in stile Vietnam al malavitoso delle cosche sudamericane) sono in perfetto stile fumetto. Per passare meglio i 107 minuti della pellicola si consiglia di scommettere l’ordine in cui i personaggi verranno trucidati. Può essere un buon test per capire quanto conoscete gli stereotipi del genere che seguono una partitura ben definita anche nella sequenza dell’uscita di scena dei personaggi per trivellazione di colpi o decollazione. Si segnala come “perla kitch” il duello tra il killer giapponese della yakuza armato di spadone da samurai contro l’alieno con spada aliena su un tappeto sonora di zufoletti orientali da film di Bruce Lee. Unica nota fuori contesto è la presenza di Adrien Brody nel cast. Ma chi glielo ha fatto fare?

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Twilight - Eclipse ovvero I vampiri succhiano soldi ai teenager


Tornano i pallidi vampiri che fanno impazzire le ragazzine. In quanti ricordano terrorizzati il volto famelico con i denti aguzzi dell’attore ungherese Bela Lugosi che con il primo “Dracula” fece tremare gli Usa nel 1931 con la regia del maestro delle mostruosità Tod Browning? Bene, dimenticatelo e risotterratelo nella sua cripta. Se un tempo vampiri sul grande schermo terrorizzavano il pubblico con pipistrelli, aglio e paletti di frassino creando un immaginario che ha dato vita a pellicole storiche come “Nosferatu” di Murnau e la sua rilettura di Herzog, o come il “Dracula di Bram Stoker” di Coppola, oggi nonno conte Dracula è stato messo allo spizio da un gruppo di pallidi ragazzetti americani dai denti a punta.


Il sole che ha ridotto in polvere i non-morti transilvani si chiama “moda”. Oggi i vampiri sono belli, giovani e “cool”. Hanno vestiti all’ultimo grido, ciuffi di capelli piegati col gel, sono poco abbronzati, sono “emo” (moda giovanile basata su abiti scuri, frange sbilenche e sguardo spento). Così è nata una serie potenzialmente infinita di “vampiri alla moda” tra cui bisogna riconoscere a Twilight di essere tra i capostipite di questa deriva del genere e che con Eclipse diventa trilogia (ed è già in preparazione il quarto).

Se alla gotica Transilvania sostituite Forks nello stato di Washington, al castello con le ragnatele i banchi di scuola e alla sapiente penna di Bram Stoker la sensibilità verso il mercato e i botteghini della scrittrice Stephenie Meyer avrete un’idea di cos’è Eclipse. Due “fustacchioni” in età da picco di ormoni si contendono Bella, di nome e di fatto. La bella Bella è indecisa se stare con il diciassettenne vampiro Edward o concedersi al muscoloso licantropo Jacob. A disturbare il triangolo amoroso arrivano pure la vampira Victoria e un branco di licantropi inferociti. La storia d’amore viene così “arricchita” da scontri adrenalinici e frenetici, musica rock e un po’ di sangue qua e là, creando una pellicola perfetta per il primo appuntamento tra due adolescenti che vogliono restare un po’ al buio senza doversi concentrare troppo sulla trama del film. Vietato ai maggiori di anni 17.

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SCUSA MA TI VOGLIO SPOSARE ovvero Moccia non ti scusiamo


Prendete un regista che non è un regista, un libro che non è un libro e degli attori che non sono degli attori ed avrete “Scusa ma ti voglio sposare”. Simile a una corrida di dilettanti allo sbaraglio, la marmellata romanticosa di Moccia impantana svampite adolescenti tra sospiri “d’ammore” e pop corn. “È il mio giovane Holden al femminile” ha dichiarato Moccia per tormentare l’anima dell’appena defunto Salinger, dimostrando non solo di non saper scrivere, ma di non saper nemmeno leggere. L’unica cosa sincera del film, sequel del tristemente famoso “Scusa ma ti chiamo amore” è il titolo. L’autore ha almeno il buon gusto di chiedere “scusa” prima di ogni suo film.


Per non farci mancare niente c’è anche la sublime colonna sonora firmata Zero Assoluto (anche loro con un nome sincero).

Veniamo all’imbarazzante trama: Niki e Alex si amano, come la raffinata sceneggiatura lascia intuire dal martellante ripetersi della battuta “ti amo”. Si amano e quindi vanno anche in vacanza a Parigi “la città degli innamorati”. Ma per non sopravvalutare il suo pubblico, lo scaltro Moccia, inserisce anche le voci fuoricampo che ci tengono continuamente informati sui cambi di umore degli imprevedibili amanti ricordandoci che per chi non lo avesse capito i due “si amano”. Ma le poesie che il terzo incomodo Guido dedica a Niki per chat sono scoperte da Alex sul di lei computer, e a quel punto il dramma è alla soglia. Anticipare il finale sarebbe un peccato, visto l’inatteso e imprevedibile colpo di scena, è giusto lasciare i lettori sulle spine: finirà che i due si sposano felici e contenti o ci sarà un tormentato finale aperto, introspettivo e psicologico, alla Bergman?

I riferimenti alla peggio tv sono espliciti anche nel cast che spazia da “vecchie glorie” del Grande Fratello ai maldestri ballerini di Ballando con le Stelle.

Un consiglio allo scrittore-regista-poeta Moccia: meglio che si dedichi a tempo pieno a scrivere le frasi “d’ammore” sui Baci Perugina. È il lavoro che più gli compete.

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ESTATE AI CARAIBI ovvero Purtroppo ci tocca stare in Italia

Un critico del noto quotidiano francese Liberation, spinto da qualche malsana curiosità, è andato a vedere “Estate ai Caraibi”. Ha commentato affermando che la pellicola, seppur di nessun valore cinematografico, potrà essere usata dai sociologi del futuro per esaminare la società italiana all’epoca del berlusconismo. In effetti l’ultimo cinecocomero dei fratelli Vanzina mette in risalto, involontariamente, gli aspetti peggiori del made in Italy. Stereotipi femminili tra veline e villa Certosa, imprenditori furbetti e ladruncoli, doppi sensi e battute non proprio esilaranti. C’è addirittura un’apparizione proprio di Berlusconi (un sosia), che però non raggiunge le vette di comicità dell’originale.


I Caraibi peggiorano il goffo “Estate al mare” dell’anno scorso. Il solito susseguirsi di episodi con i soliti protagonisti Enrico Brignano, Carlo Buccirosso, Biagio Izzo e le starlette Martina Stella e Alena Seredova. Non quaglia nemmeno Gigi Proietti, che appare stanco e svogliato.

Se le commedie sull’arte di arrangiarsi di Totò hanno connotato il dopoguerra in un’Italia vogliosa di riscattarsi. Se la comicità di Alberto Sordi fu il simbolo del boom economico e Fantozzi è stato icona del consumismo impiegatizio. Da quindici anni i Vanzina dipingono un quadro agghiacciante dell’Italia. Possibile che sia davvero così drammaticamente realistico? I botteghini paiono dargli ragione. Speriamo che sbaglino.

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LA FIDANZATA DI PAPÀ ovvero Comicità al minimo storico


Dopo aver sbattuto la porta in faccia a Neri Parenti e Christian De Sica, perché “scaduti nella volgarità”, il paladino dell’arte comica Massimo Boldi torna al cinema con “La fidanzata di papà”. La scoppiettante ironia e la battuta vezzosa non sono mai state alla base del cinema del tozzo comico lombardo, noto, al contrario, per essere un po’ volgarotto. Dopo le dichiarazioni di Boldi, però, che sottolineavano come lui, in prima persona, si fosse preoccupato di dare contegno alla pellicola, epurandone le scene più volgari, qualche ingenuo si era forse fatto persuaso di un cambiamento (?). Inutile dirsi che il compito del censore era quantomeno imponente. Rimane inimmaginabile cosa potesse nascondersi nelle scene scartate da un pellicola intrisa di doppi sensi imbarazzanti, botte nei testicoli, e una terrificante scena di nudo con Massimo Boldi come mamma l’ha fatto. Forse il fiscalissimo comico ha tagliato le inquadrature dove apparivano le sue vergogne? Ma ha drammaticamente lasciato il resto. Su una trama superflua e raffazzonata, fatta di equivoci e litigi, sono incollati sketch vecchi e stantii con comici ripescati dalla peggior televisione (dalla conduttrice Simona Ventura, ai pessimi Enzo Salvi, Biagio Izzo en travesti con tanto di parrucca, Nino Frassica in smunto rispolvero, Teresa Mannino e i redivivi Fichi d’India). Lo sfondo di Miami, inoltre, dona quel po’ di cialtroneria in più, di cui, francamente, si sentiva proprio la mancanza. Ma come fare un cine-panettone senza un po’ di “carnaza”? La materia prima è fornita da Natalia Bush, Elisabetta Canalis e un nugolo di anonime siliconofile. Le varie battutacce non riescono nemmeno ad inserirsi in un contesto narrativo omogeneo, ma appaiono come tanti frammenti sconclusionati e svincolati l’uno dall’altro. Più che un film risulta una sorta di zapping televisivo tra sketch alla Zelig, in cui la battuta è talmente prevedibile da risultare quasi offensiva.


La pellicola, oltre a scandire un ulteriore gradino verso l’abisso del cinema nostrano, segna anche un terrificante traguardo verso appiattimento dell’encefalogramma del nostro stivale. Infatti il film, anziché far finire sul lastrico produttori e attori (come avrebbero meritato da tempo) ha già incassato oltre 6.000.000 euro. Tratto da una storia vera, la nostra.

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UN'ESTATE AL MARE ovvero Quando d'estate è meglio andare al mare che al cinema

Affannati dal caldo? Cosa c’è di meglio che sottoporsi a una terapia di battutacce e doppi sensi dell’ultimo film dei fratelli Vanzina per rabbrividire?!


“Un’estate al mare” è la risposta a ogni vostra più sordida voglia di basso umorismo. Ottimo lo sfondo estivo per proporre le ragazze scollacciate, che da sempre infarciscono le pellicole dei Vanzina. Almeno questa volta i fratelli della nuova commedia italiana non devono ingegnarsi nell’architettare improbabili escamotage per far scosciare le ragazze, la spiaggia, infatti, fa da sola il suo corso. Il film, che si propone come risposta estiva alle “vacanze di natale”, con il tentativo di raddoppiare l’appuntamento, riscalda al microonde vecchie battute e sketch ormai blasonati, dando vita a una serie di scenette brevi, tipiche dei film a episodi, ricche di personaggi cialtroni e cornuti. C’è Lino Banfi, che pare tratto direttamente da “Pappa e Ciccia”, mentre cerca di farsi credere ricco “affittando” l’abbondante Victoria Silvestedt come vistosa compagna da esibire ad amici e parenti; Ezio Greggio con il super lassativo da somministrare alla moglie per trascorrere le vacanze libero dall’invasiva consorte, Enzo Salvi con la suoneria del telefonino fatta di peti, Biagio Izzo che si finge gay per accaparrarsi la clientela femminile. Nel cast televisivo presenti anche Enrico Brignano, Nancy Brilli, Anna Falchi, Massimo Ceccherini e Alena Seredova.

Insomma un vero film tributo alla comicità anni ottanta, con tanto di Giuni Russo in colonna sonora. L’unico che fa divertire è Gigi Proietti, che riempie con qualche battuta i raccordi tra una scenetta e l’altra.

Paragonare il film ai capolavori della commedia all’italiana di Steno e Risi, come alcuni hanno scritto, pare perlomeno fuori luogo. Altrettanto fuori luogo però è gridare alla sfacelo del cinema italiano. È, semplicemente, il filmetto che ci si poteva aspettare, con laconiche risate e qualche sbadiglio.

La sfida di portare il pubblico italiano nelle sale d’estate è ardua, ma se risulterà vinta darà addito all’interminabile sfilza di sequel. Tra i possibili: “Estate alle Maldive”, “Estate ai Caraibi” (magari con annessi i pirati), “Estate in Valsugana”, e via all’infinito con “Estate… sull’Himalaya, Estate alle pendici del Kilimangiaro”, e ancora, “Estate a Brugherio”, e per finire “Estate a Casal Borsetti” con tanto di partita a bocce (uno splendido spunto per facili doppi sensi). Tutto sommato il titolo di questo primo, e ci auguriamo ultimo cine-cocomero, “Un’estate al mare”, è già in sé un doppio senso, contenente un consiglio subliminale: meglio andare al mare, veramente.

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